Il Lanerossi Vicenza era lì: con le sue maglie a strisce e la spavalderia ribalda delle “provinciali”

C’era il Lanerossi Vicenza.
E stava sempre in mezzo.

Anche nell’album Panini, stretto tra la Juve e la Lazio; con quelle inconfondibili maglie a strisce verticali biancorosse e la R sul petto, primo esempio di sponsorizzazione (nemmeno troppo occulta). E te lo trovavi in mezzo proprio come quel famoso palo nelle riprese televisive… Quello a supporto delle tribune del Romeo Menti, e che a volerlo interpretare sembrava proprio l’ultimo baluardo di un calcio ormai al tramonto, rassegnato all’incedere prepotente della tecnologia. Dell’HD, del Full HD e del 3D.

Il Lanerossi Vicenza era lì: con le sue maglie a strisce e la spavalderia ribalda delle “provinciali” che (molto più di adesso) davano il sale ad un campionato senza stranieri; vissuto più alla radio che alla televisione, più immaginato che visto.
Anni dove certe squadre avevano un pezzetto di gloria e anche qualcosa in più: il Cagliari e la Lazio, che vinsero persino lo scudetto. Ma anche il Cesena dei miracoli, e la Ternana del gioco corto. L’Ascoli, l’Avellino (con la “legge del Partenio”) e il Catanzaro di Palanca, che tirava magnifiche punizioni. Il Mantova e il Varese, pensa te.
I protagonisti di queste squadre avevano facce italianissime e nomi mai più dimenticati: Frustalupi, Steno Gola, Longobucco, Di Somma, Adelio Moro… Ci sfidavamo a gare di memoria su chi era più bravo a ricordare data e luogo di nascita di quelli meno conosciuti.

Poi, arrivò il 1978.
E lì si capì che il piccolo Lanerossi Vicenza stava facendo sul serio. E poteva inserirsi nella lotta scudetto, che ritenevamo esclusiva dell’invincibile Juve o, al massimo, del Toro di Pulici e Graziani.
Ci andò vicino, il Lanerossi. E se non ce la fece, portò comunque a casa un secondo posto che profumò di impresa, come successe anche al Perugia. A ribadire, entrambe, che l’ultimo scalino è sempre il più difficile. E che essere provinciali vuol dire proprio questo: mancare il salto decisivo, quello che dal setteemezzo/otto porta al dieci e lode.
Galli, Lelj, Callioni…
Potrei ricordarmela a memoria quella squadra lì, con qualche sforzo e senza ricorrere a wikipedia: Guidetti, il mediano grassottello che correva per tre. Filippi, il cavallino pazzo che giocava all’ala sinistra. E poi Carrera, il libero che menava, e Faloppa che quando appese le scarpe al chiodo aprì un’officina meccanica. E tutte le mattina indossava la tuta e si metteva al tornio o alla fresa, come un operaio qualsiasi.
E Paolo Rossi, ovviamente. Che di quella squadra ne fu prima il simbolo e poi, se vogliamo, anche la rovina. Con quei famosi 5 miliardi che mandarono sul lastrico il presidente, e poi la stessa società.

Il Vicenza calcio (non più Lanerossi, credo) è fallito ierisera.
Comunicato Ansa, tre righe. Come si usa adesso.
Poco male…
Nel calcio attuale, ormai, un fallimento non si nega a nessuno. Ci sono passati un po’ tutti: il Perugia, il Varese, il Mantova e tutte quelle squadre lì. Persino il Bologna e la Fiorentina, che ci sembravano inaffondabili. E quelle che il fallimento lo hanno evitato, è meglio non andare troppo a indagarne i motivi.
Di certo, non sentirò la mancanza del Vicenza calcio.
Era da tempo che non me lo trovavo più in mezzo. E quando lo vedevo, quelle maglie biancorosse non avevano più il fascino di una volta: forse perché avevano le strisce più larghe, o magari nemmeno le indossavano più, preferendo colorazioni più “a la page” (come il Napoli che gioca in grigio o la Roma verde-oliva).
E perché quando le squadre di calcio vengono acquistate dai fondi di investimento, dalle cordate arabo-cinesi con sede a Panama e da presidenti che non si capisce cosa fanno e da dove vengono, beh… Ammetto che mi piacciono molto di meno.

Anzi, le trovo addirittura fastidiose.
Anche più del paletto che impalla le riprese tv.