Il calcio di adesso, piaccia o no, è figlio di quell’ intuizione visionaria.E quel visionario lì, ha un nome un cognome

Borghi o Rijkaard? Che lì per lì non fu mica tanto facile scegliere. Perchè Rijkaard, d'accordo, sappiamo chi era; ma anche Borghi, magari, ad insisterci un po' di più... Soprattutto il Borghi visto nell'Intercontinentale 1985, che per poco non la vince da solo: lui, con quella squadretta argentina, e davanti la Juve del miglior Platini.
    Magari, chissà, Berlusconi aveva visto giusto... Anche se poi si rassegnò al diktat di Sacchi che minacciò le dimissioni (ci credo poco), e fu proprio lì che nacque il favoloso Milan degli Olandesi.

    E forse quella storiella Borghi-Rijkaard, che ieri hanno spiattellato diecimila volte, gli ha fatto pure comodo. A Berlusconi, dico. Perchè ha finito per arricchire lo storytelling del padrone buono, che gli ha comunque un gran comodo. Del potente che sorride, racconta barzellette, e ascolta i consigli di chi gli sta intorno, e quando lo vedevi non pensavi a Dell'Utri, al Caimano, alla Mondadori o al Ruby-ter... Piuttosto, a quei caratteristi che nei film di Steno facevano la parte dei “Cumenda” milanesi, con la battuta pronta e il sorriso largo di chi ha i soldi, ma anche il “coeur in man”. 
    E riusciva simpatico a mia nonna, che lo votava con entusiasmo, ma anche alla vicina, che non lo votava ma trascorreva le giornate a guardare Retequattro. Piaceva a Sergio, che tifava la Fiorentina e sospirava: “Avercelo, un presidente come Berlusconi...”, piaceva a Spago, che “Chissà Berlusconi quanto tromba”. 
    E Spago, invece, non trombava mai.

    Il giorno che Berlusconi comprò il Milan, uscì un'intervista, sulla Gazzetta, con lo stesso effetto del Dottor Machetti che domattina si sveglia e promette, tempo dieci anni, il Petroio in Europa League: quel Club, un tempo così glorioso, aveva i furgoni pignorati e il curatore fallimentare sul pianerottolo di Milanello, ma si capì subito che quel personaggio avrebbe capovolto la storia. C'era sicuramente quel piglio “ora arrivo io, e vi faccio vedere come si fa”, tipico di una certa imprenditoria degli anni'80 (lo chiamavano il “rampantismo”) ma c'era anche qualcosa di più.
    C'era quella visione nuova, e impetuosa, che in genere anticipa una rivoluzione: che, magari, sarebbe arrivata anche senza di lui, perchè la storia è forza motrice, e non si ferma davanti a un portone, ma è indubbio che tutto cominciò con il suo Milan, e quella specie di furore futurista che ne accompagnò le imprese. 
     Il grande Liedholm, che era una specie di icona, fu il primo a rimetterci le penne, perchè il mondo aveva preso a correre, mentre lui continuava a far giocare Di Bartolomei... Infatti arrivò Sacchi, con il megafono, e gli elicotteri con gli altoparlanti che “sparano” Wagner: poi, i trionfi, il club più titolato al mondo e tutto ciò che ci voleva per foraggiare il “brand” Milan, in netto anticipo sul Real, il Manchester, il Barcellona che di lì a qualche anno ne seguiranno (e supereranno largamente) l'esempio.
    Da lì, la missione ultima di moltiplicare gli utili, con l'assalto alla cassaforte dei diritti TV, la riforma delle Coppe, i calendari sempre più intasati e i primi, timidi sussurri di un'embrionale superlega. Il calcio di adesso, piaccia o no, è figlio di quell' intuizione visionaria.E quel visionario lì, ha un nome un cognome.
    Un figlio che ci ritroviamo, dopo tanti anni, obeso, depresso e viziatissimo; nutrito a grassi, zuccheri ed altre porcherie che ne hanno fatto una specie di essere abominevole.
    Come succede spesso nelle rivoluzioni, che partono all'assalto della Bastiglia e si ritrovano, infine, a gridare "Vive l'Empereur".

    Adesso, sipario.