Con noi, fu strepitoso. Avrei diecimila aneddoti sullo zio Vujadin.

Era uno zingaro simpatico, lo zio Vujadin.
Bastava guardarlo negli occhi, che erano due piccole fessure. Due fessure vivacissime e soprattutto furbe. Quando andai a chiedergli l’autografo, quegli occhietti furono la cosa che più mi incuriosirono.
E poi sapeva stare al mondo. Aveva girato l’Europa e parlava almeno cinque lingue. Fossi nei familiari, lo seppellirei a Genova, dove tutti gli vogliono bene. O a Napoli, dove starebbe benissimo.

Perché Boskov era uno jugoslavo per caso: in realtà era un Napoletano, senza sapere di esserlo.
Vale la pena ricordare un aneddoto di quando a Napoli ci andò ad allenare, quasi in chiusura di carriera, a metà degli anni 90. Ci trovò un presidente, un tale Moxedano, che gli stava cedendo tutti i pezzi migliori, e una squadra che faceva onestamente ribrezzo. Dopo cinque giornate era penultimo, e i tifosi cominciarono seriamente a preoccuparsi: “Weh, Mister… Non è che retrocediamo?”.
Lui scrollò le spalle e rispose serafico: “Retrocessione? Neanche ci penso… Puntiamo come minimo alla zona Uefa…”.
Il suo Napoli si salvò (malissimo) alla penultima giornata. Quel giorno i tifosi lo portarono in trionfo allo Stadio San Paolo. E quel giorno finii di convincermi che come allenatore, Boskov valeva gli altri. Come uomo, invece, era uno che della vita aveva capito molto, se non tutto.

Con noi, fu strepitoso. Avrei diecimila aneddoti. Mi limito a ricordarlo come il tecnico dello scudetto, della coppa coppe a Goteborg e degli anni più belli. Le immagini che Sky ha riproposto stanotte della sua Samp, mi hanno tenuto incollato alla tv fino alle due e un quarto.
Tra l’altro, Boskov incarnava il perfetto l’uomo immagine di una squadra che oltre ad essere vincente risultava anche simpatica (“Sampdoria è come bella ragazza che tutti vogliono baciare” diceva spesso).
In un panorama di allenatori bravi ma che non ridevano mai (Sacchi, Capello, Zoff, Bagnoli, Ottavio Bianchi, Marchesi…), la simpatia di zio Vuja finì per essere il veicolo ideale di quello stile che Paolo Mantovani volle e riuscì ad imporre… Con qualche piccola buccia di banana: tipo quando disse che il suo cane giocava meglio del libero del Genoa.

“Gullit è come cervo che esce da foresta”, per esempio, fu una definizione poderosa. Un’immagine bellissima. Degna di un romanziere americano. Un romanziere bravo bravo, dico…. Il cervo che usciva dalla foresta si liberava degli alberi, dei rami e delle sterpaglie che impicciavano le sue corna e poteva finalmente correre libero… La disse dopo un Samp-Milan 3-2 che personalmente metto tra le prime cinque partite più emozionanti della mia vita. Poi Gullit fece ritorno al Milan. “Ecco -osservò deluso Boskov – adesso il cervo è rientrato nella foresta”.

Era da un po’ che non se ne sentiva parlare, di Zio Vuja. Lo citavano, semmai, per qualcuna di quelle frasi che lo hanno reso famoso (“rigore è quando arbitro fischia”, per esempio).
Ma in generale, lo avevamo un po’ dimenticato; e anche lui, ammalato da tempo, si era fatto da parte.
Consapevole, come tutte le persone intelligenti, che quando si è fatto il proprio tempo si rischia solo di ingombrare il proscenio. E magari si sciupa il bel ricordo, risultando pesanti e inadeguati.
Una lezione di stile, anche questa.

Ti sia lieve la terra, caro vecchio maestro.